Isle sur la Sorgue
Le promesse non si fanno, me lo diceva sempre la nonna. Non si fanno perché la vita è piena di cambi di rotta, di contrattempi, assenze e cose che mancano. Non si fanno perché la vita è altro.
Non a caso avevo previsto una serie infinita di variabili durante questo viaggio eppure tutto è filato liscio. Controllo l’ora, sono a poco passate le undici e Isle sur la Sorgue è in pieno fermento. Ho scelto Isle sur la Sorgue e qualunque altro luogo presente nell’itinerario con un solo criterio: cosa desideravo fotografare e cosa no. Ho portato con me la solita attrezzatura fotografica e in più una piccola compatta marchiata Leica che credevo sarebbe rimasta inutilizzata nella borsa. In realtà dopo il primo giorno era perfettamente chiaro che avrei utilizzato solo quella.
Avevo bisogno di ricordare la cosa più importante, che non sono i megapixel di un’immagine a rendere speciale quell’immagine ma le scarpe che indossi mentre la scatti. Me lo ha insegnato uno dei maestri del fotogiornalismo italiano: “devi essere invisibile, fare meno rumore possibile, le persone devono sapere che ci sei ma presto o tardi dimenticarsi di te”.
Isle sur la Sorgue è una cittadina elegante, piena di gallerie d’arte e di fiori. Alcuni piccoli cafè ricordano quelli parigini, eleganti e sofisticati. E ora che ci penso, dovrei tornare a Parigi prima possibile.
Osservo uno stormo di uccelli rifugiarsi nella folta chioma di un ciliegio. Potessi rinascere mi piacerebbe volare sopra i cieli e librarmi nelle sfumature di un’alba o di un tramonto, sorvolare dall’alto per scoprire se è vero come dicono che le paure diventano più piccole se viste da una prospettiva diversa.
Passeggio con calma per le vie del centro costellato di botteghe, di antiquari lungo il canale. Isle sur la Sorgue vanta la più grande concentrazione di venditori d’antiquariato al mondo. Mi fermo per un po’ nella zona del canale dove si riuniscono le famiglie con i bambini. Alcuni si divertono a rinfrescarsi immergendo i piedi nell’acqua, altri giocano agli spruzzi.
«Chi gli ha dato il permesso?» sussurra in francese, un anziano signore passando di lì. La sua camicia a quadri odora di tabacco e la sua pelle di dopobarba.
«Non fanno nulla di male» rispondo io.
Lui alza il sopracciglio, probabilmente non credeva che qualcuno lo avesse sentito. «Mio padre non mi avrebbe permesso di farlo!»
E’ figlio di un’altra generazione, c’è poco da fare. Forse anche lui a quell’età avrebbe voluto ridere e divertirsi come quei bambini. Forse la ruvidezza che mostra in superficie nasconde attenzioni e desideri di cui nessuno si è mai curato. “O forse è semplicemente uno stronzo” suggerisce una parte di me alla quale scelgo (almeno per il momento) di non piegarmi. Il punto è che trascorriamo gran parte del nostro tempo domandandoci cosa sia giusto fare anziché chiederci cosa davvero ci renda felici.