ADESSO
Prendo il respiro, ne ho bisogno. La porta del reparto di Terapia Intensiva sta per aprirsi ed è un appuntamento, questo, al quale ho dato buca parecchie volte. Oggi, però, tutto è diverso, oggi tutto ha un senso. Enrico Storti, il primario del reparto di Terapia Intensiva, è arrivato a Dicembre dopo aver gestito in prima linea l’emergenza Covid a Lodi. Lo sguardo mi cade sul camice bianco che porta addosso. Penso d’istinto ad un’armatura, spessa, ma non abbastanza da consentirgli di dismettere completamente i panni da se stesso.
«Più è acuto lo stress, più la divisione tra uomo e medico diventa tenue. Anzi, in piena emergenza ci sono stati istanti in cui ti dimenticavi» si corregge prontamente «o cercavi di dimenticarti di essere uomo. I punti di contatto tra la mia umanità e il mio lavoro erano brevi ma intensissimi, riagganciare le sinapsi costava così tanta fatica che scattavano immediatamente meccanismi di difesa in grado di consentirmi di riabbassare la visiera e tornare al lavoro. Dovevamo dare il nostro cento per cento, consapevoli che, probabilmente, il novantanove non sarebbe bastato. Molti ancora non se ne sono resi conto ma abbiamo combattuto una guerra di trincea, non una guerra lampo. Una guerra fatta d’attesa, di strategia, di piccole accortezze. Nessuno di noi era preparato a gestire flotte di malati che arrivavano ad essere fino a cento al giorno e tutti gravissimi. Gli equilibri erano saltati, non conoscevamo la malattia, non sapevamo come fronteggiarla. L’impatto emotivo è stato devastante e da allora la mia visione della professione, della vita, della responsabilità, è cambiata. L’indeterminatezza, l’emergenza, la paura dello sconosciuto, ti mette a nudo. E un sacco di impalcature sono cadute».
E quando il rumore si fa più sottile, quasi ovattato oltre la porta dello studio, arriva il momento di fare i conti con se stessi, con quel silenzio che diventa opportunità, un’astrarsi dal ritmo, per ritornare sui propri passi, sulla strada fatta e su quella che ancora manca da fare. Non è un silenzio che permette di staccare ma, al contrario, l’appuntamento fisso di giornate in cui il senso del tempo è perduto. Come in quei film in cui il protagonista si ritrova in una grotta, sveglio per giorni interi, essendo venuti meno tutti i suoi i riferimenti. Non sa più se fuori è giorno oppure notte.
Carla Maestrini, la caposala, mi conduce all’interno del reparto. Da qui il rumore delle macchine è più forte. Non ho mai visto niente di simile, volto lo sguardo a destra, poi a sinistra, in ogni stanza. Un passo alla volta arrivo alla fine del reparto, davanti a me si aprono due porte scorrevoli, all’interno tre persone. Due uomini e una donna. Filtra una luce calda dalle vetrate, calda quanto lo sguardo di Carla.
«Ce la faranno?» chiedo.
«Non ci arrendiamo!» si commuove.
Mi sento come una tela di Fontana, squarciata a metà. Osservo queste persone, i corpi semi nudi che Carla copre con tutta la cura straziante e straziata di cui è capace. L’aspetto spirituale di un lavoro di cura. Sento la solitudine, pesantissima, del viaggio che queste persone stanno compiendo da sole. È disumano. Scatto fotografie che quasi certamente non pubblicherò, quelle in cui i corpi sono più visibili. Ci sarà spazio per altro, ma non per queste.
Nella stanza accanto, un infermiere, si avvicina al letto di un paziente. Lui è cosciente, indossa il casco. Mi mostra il pollice alzato, come a dire, non mollo, sto lottando.
«Dice che si trova bene in questo albergo!» scherza, l’infermiere.
«Come fate?» chiedo, non appena lo vedo uscire.
Un’altra impalcatura che crolla. «Dobbiamo!» gli occhi si fanno umidi «Siamo qui per rendere più lieve il loro dolore, piango un’ora sì e l’altra pure».
C’è uno sgabuzzino, mi chiudo lì dentro e aspetto. Un minuto, due, tre. Vorrei solo fare la mia parte, restituire qualcosa. Il decoro, la devozione più assoluta, perché nulla di tutto questo finisca per perdersi nella tela fittissima dell’invisibile. Eppure d’improvviso mi pare d’essere fuori posto e che la mia macchina fotografica sia un’accessorio inopportuno, troppo invadente per infilarsi in un’intimità che, merita di restare tale. Muoversi sul bordo delle vite degli altri richiede rispetto e questo è il limite oltre il quale scelgo di non spingermi. Infilo gli auricolari, i tasti bianchi e neri del pianoforte di Roberta di Mario aiutano a riprendere fiato. Mentre ascolto, la sensazione fortissima che non sia io ad attraversare questo luogo ma lui ad attraversare me.
Piango anch’io. Scatto di nuovo e piango. Poi, un attimo dopo, per una frazione di secondo appena, rivedo Piera, la mia amica. Sono qui per lei. Il dolore dell’addio, quello atroce, scomposto e disordinato che ho sentito nei giorni scorsi, si sta trasformando in qualcosa di diverso. Credevo l’avrei immaginata nel letto numero dodici e invece la penso lungo un filo invisibile che lega una lacrima ad un sorriso. E la immagino qui, dietro di me, a coprirmi le spalle e ricordarmi la cosa più importante: nessuno se ne va mai troppo lontano dal cuore di chi lo ha amato.
Ecco perché ha senso che io sia qui.
Ecco perché sono qui.
Adesso.

