LA STANZA DEGLI ABBRACCI

29 Gennaio 2021

Amelia è ferma davanti ad un velo di plastica. Sottile ma abbastanza spesso da tenerla al sicuro. Al sicuro da un abbraccio. Gli occhi color acquamarina s’intonano allo scialle che porta sulle spalle, da qualche mese ha rinunciato a tingersi i capelli perché “bisogna saper invecchiare e questo adesso è il loro colore”.

 

Ottantadue anni di puro garbo.

 

«Aspetto questo momento da sei mesi, finalmente posso rivedere mia nipote Bea e voglio essere in ordine! Mi dica la verità, come sto?»

«Direi benissimo, Amelia».

 

In fondo al corridoio qualcuno ha appena chiuso una porta. Un rumore di passi rimbalza da una parte all’altra dell’atrio come una pallina da tennis impazzita.

«È lei!» sussurra Amelia, coprendosi il volto con entrambe le mani. «Riconosco la sua camminata, sono centottantanove giorni che aspetto di vederla».

Quando la malinconia travolge ci si aggrappa a tutto, ad un soffio di vento, alla forma di una nuvola, al conforto nelle parole di una compagna di stanza. Ci si aggrappa alla vita, ai gesti che evocano memorie, ai ricordi che hanno ancora il potere di mettere ordine nel disordine. E viceversa.

 

 

 

 

189 giorni. Sei mesi.

Centottantanove giorni che Amelia aspetta paziente nella sua stanza al secondo piano, dove tiene sul comodino la fotografia di lei e di Bea in vacanza al mare. Centottantanove giorni da quell’a domani che è tardato ad arrivare. E nel mezzo, la laurea di Bea vista in videoconferenza, la Pandemia che ha bloccato la ragazza a Londra per mesi, le telefonate ogni sera. Quel “mi manchi” sussurrato appena prima di poggiare la testa sul cuscino, levare gli occhiali, fare un lungo sospiro e poi andare a dormire.

Si cade, accade anche questo, certi giorni si crolla. È il tunnel della paura, della mancanza, dei dubbi che s’insinuano come molesti insetti notturni. Ci rivedremo? Ma ri-costruire dal fondo è un talento da non sottovalutare e Amelia lo conosce bene.

 

Centottantanove giorni.
Poi, è arrivato oggi.
È arrivato, adesso.

 

Bea ha i capelli biondo cenere raccolti in una coda lunga, gli occhi verdi e il viso colorato di lentiggini. Piange, con discrezione ma piange. Amelia la scruta e nel silenzio che segue ci pensano gli occhi a dire. A raccontare. Un nodo che piano piano si scioglie, finalmente, il cuore pesante si fa leggero. Sono di nuovo qui, di nuovo insieme. Amelia allunga la mano, Bea fa lo stesso, una stretta forte. Il velo di plastica è sempre lì, davanti a loro, ma divide solo due corpi. Non il resto. Il resto è dov’è sempre stato. Dentro.

 

Possiamo viaggiare, fare le valige e trasferirci dall’altra parte del mondo, possiamo fare progetti a lungo termine, forzare un’intera esistenza dentro ad un binario, dimenticare appuntamenti, perdere treni, coincidenze, scordare dettagli che credevamo fondamentali ai fini della storia. Possiamo. Ma poi ci pensa la vita a ricordare chi siamo; coraggiosi funamboli in cammino lungo un filo sospeso nel vuoto.

E allora si riavvolge il nastro, stessa strada ma percorsa al contrario. Questo è il ritorno. Il luogo in cui si trova chi non se n’è mai andato. Chi ha sempre aspettato. Ogni cosa accade al momento giusto e questo è il loro tempo. Nessun vuoto si riempie d’altro, nessuno spazio viene occupato. Ci saranno nuovi spazi per chi arriverà dopo ma, questo, resta di Amelia e Bea soltanto.

 

 

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